00 11/12/2009 00:01
Bob Dylan
Desire


di Nadine Otto

“Now all the criminals in their coats and their ties
Are free to drink martinis and watch the sun rise
While Rubin sits like Buddha in a ten-foot cell
An innocent men in a living hell
That’s the story of the Hurricane”


Nelle righe dell’opener “Hurricane” dell’album Desire Bob Dylan ci copre con un profluvio di otto minuti e mezzo di narrazione, facendo emergere un esuberante universo pieno di turbamento e vigore, a riportare la sciagura del personaggio di cui racconta davanti ai nostri occhi, lasciandoci fin dall’inizio senza fiato. Il geniale menestrello con la sua canzone socio-critica ha reso pubblica l’ingiustizia delle autorità americane che, nel 1966, hanno imprigionato il pugile afroamericano Ruben “Hurricane” Carter per omicidio– un errore grossolano. La storia è stato portata anche su pellicola da Norman Jewison, che ha tratti ispirazione proprio dal pezzo in questione per il motif centrale, a ricreare visivamente quello che Dylan era riuscito ad esprimere attraverso semplici parole. L’ostinazione con cui Dylan spinge fuori le sue lamentele e l’incredulità con cui si riferisce alla giustizia americana dell’epoca (e con cui ha portato alla ribalta dei media il caso) sono della stessa tempra di passione e furia che deve aver provato “Hurricane”, l’uomo solitario che poteva essere il “campione del mondo”, se non avesse dovuto consumare tutte le sue energie per combattere una battaglia di 16 anni in prigione da Davide contro Golia per “ripulire” il suo nome.
Molti sono dell’opinione che Blood On The Tracks sia l’ultimo capolavoro di Dylan e che Desire (dai nostri genitori, meno familiari con l’inglese, a volte amorevolmente chiamato Désiré) non aggiunga niente di nuovo e in più glorifichi non solo un campione di boxe ma anche un gangster di Little Italy in “Joey”: interpretazione affrettata ed errata, che non dà giusto credito ad un album eccezionale. “Hurricane” non è solo una canzone dignitosa al livello di altri goielli dylaniani più noti, ma è anche l’opener di un album che giustamente può essere considerato una delle opere d’arte di Dylan (e non solo del Dylan anni settanta) per la sua lirica strepitosa ma anche per la sua complessità musicale, manifestando contemporaneamente una svolta stilistica e un cambiamento di Dylan nel suo modo di fare musica.
Alla fine del 1975, già avvolto nell’aura del mito - Bob Dylan, aveva alle spalle una lunga scia di capolavori e gioielli, primi fa tutti i mille esperimenti col folk durante gli anni sessanta, ma il suo output creativo era ancora immenso e non lasciava pace al fuoco del suo spirito inquieto. Quando era ritornato al Greenwich Village, anche grazie ad incontri recenti e casuali, Dylan riuscì a creare un circolo di talentuosi musicisti attorno a sé. Nonostante il suo gigantesco egocentrismo, Dylan con Desire, caso più unico che raro, concede il controllo totale e lascia le redini ad altri. Il maggior contributo viene sicuramente da Jacques Levy – colto intellettuale, studioso di psicologia e regista avanguardistica dell’Off-Off-Broadway negli anni sessanta - che riesce a imbrigliare il terremoto Dylan e collabora con lui su sette delle nove canzoni dell’album. Scarlet Rivera – che ha quasi raccolto dalla strada - con il suono del suo violino domina l’album: i sui assoli indiavolati, non solo in “Hurricane”, sono uno dei colpi di genio del disco. In più c’è Emmylou Harris, coi suoi contrappunti vocali, a sacrificarsi nel compito sicuramente non facile di stare dietro all’ eccentricità della voce di Dylan, a volte riuscendo persino a catturarla e ad esserne perfetto contraltare, quasi dando alla sua crisi e al suo fascino un tocco femminile.
È proprio questa combinazione di musicisti insieme al genio musicale e letterario di Dylan a regalare al disco la sua qualità e ricchezza. Il risultato elabora una tavolozza di innocente intensità, insistenza ed eclettismo, superiori al fondamentale, ma più tormentato e introverso Blood On The Tracks, che, occupandosi della propria insufficienza, del dolore e della perdita della moglie Sara, aveva riportato a Dylan il rispetto dei critici e dei fans. Nel più immediato Desire invece troviamo uno spostamento verso il mistico su cui Levy con le sue conoscenze di Gustav Jung ha sicuramente una certa corresponsabilità. Dylan racconta sventure tragiche come negli epici “Hurricane” e “Joey” , un lungo sogno di undici minuti: più che la glorificazione di un mafioso, un viaggio nei lati ombrosi della gloriosa “American Way of Life”. Sagoma fantasie outlaw come nel surreale “Isis”, viaggio mistico nell’ignoto con il suo simbolistico immaginario esotico, che intreccia una perdita d’amore con il saccheggio di una tomba nelle piramidi, un mito egizio, il tradimento e sopratutto, ovviamente, il desiderio.
È inutile parlare di picchi in un album così: una delle grandi stelle oscure dell’album è “One more cup of coffee”, tragica e geniale elegia con accenni ebraici in cui Dylan, insieme alla Harris, crea un’atmosfera d’affascinante melanconia. In “Oh, sister”, una mistica discussione sull’amore, la morte e dio, dall’altra parte, esprime perfettamente lo spirito vagante del disco e suona come un outtake del Dylan anni sessanta. Anche l’ultimo pezzo, “Sara”, ha nel suo dna l’aura di misticismo del disco, marcando nel contempo il disperato desiderio di riavviare la relazione con Sara. “Mozambique“, per contrasto, sembra più pura e spensierato. Il violino di Rivera e le voci di Dylan e della Harris esercitano un fascino in grado di indorare un pezzo piuttosto mediocre. Sottili influenze bluegrass trapelano attraverso lo struggente aroma latino di „Romance in Durango“ e in Black Diamond Bay“, una lunga allucinazione surreale che narra dei visitatori freak di un albergo su un isola che sta per naufragare nel mare dopo l’eruzione di un volcano.
Alla diavoleria della musica, che sprizza un affascinante flair di vagabondo ed arcano difficilmente da imprigionare in parole, è compito arduo sottrarsi. Bob Dylan non è solo il grande padre del cantautorato folk, soprattutto di quello più letterario e colto, ma ha anche dato, col suo stile intriso di ars poetica, un contributo enorme alla cultura letteraria. L’influenza del simbolismo francese di Baudelaire e, ancor di più, del “poeta maledetto” Rimbaud su Desire è innegabile. La straordinaria connessione di musica e poesia del ribelle con l’armonica e la chitarra è stato spesso copiata ma mai eguagliata: il surreale, tortuoso viaggio mentale e sentimentale nell’architettura magica e ignota di questo disco è capace di mostrarne la statura schiudendosi appieno anche ai più accaniti miscredenti del culto Dylaniano.




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