Note sul libro dell’ESODO

Gian-
00giovedì 21 aprile 2011 18:10
CAPITOLO 3
Capitolo 2:11-25

Nel meditare la sua storia, questo grande servitore di Dio, Mosè, va considerato sotto due punti di vista: nel suo carattere personale e in quello allegorico.

Nel carattere personale di Mosè vi sono molte cose che dobbiamo imparare. Dio dovette non soltanto su­scitarlo ma anche formarlo, in un modo o nell’altro, per un lungo periodo di ottant’anni, prima nella casa della figlia del Faraone, poi nel deserto (cap. 3:1).

A nostro giudizio, ottant’anni sembrano un tempo lunghissimo per l’educazione di un servitore di Dio; ma i pensieri di Dio non sono i nostri: Dio sapeva che era necessario il doppio di quarant’anni per preparare que­sto vaso scelto da lui. Quando Dio educa qualcuno, lo fa in un modo che è degno di Lui e del suo santo ser­vizio. Egli non vuole un novizio.

Il servitore di Cristo deve imparare più di una le­zione: deve passare attraverso più di un esercizio e so­stenere più di una lotta, in segreto, prima di essere ve­ramente adatto per agire in pubblico. All’uomo naturale questo non piace: egli preferirebbe giocare un impor­tante ruolo in pubblico piuttosto che imparare in se­greto: preferirebbe essere l’oggetto dell’ammirazione degli uomini piuttosto di essere disciplinato dalla mano di Dio. Ma dobbiamo seguire il cammino di Dio. Con l’impulso della nostra natura ci si precipiterebbe nel campo d’azione, ma Dio in questo non ha a che fare; bisogna che l’uomo naturale sia frantumato, consumato, messo da parte. Il posto della morte è quello che gli spetta. Se vuole agire, Dio nella sua perfetta fedeltà e saggezza guiderà le cose in modo tale che il risultato di questa attività della natura torni a sua completa con­fusione. Dio sa cosa bisogna farne dell’uomo naturale; sa dove deve essere posto e dove trattenuto.

Gian-
00giovedì 21 aprile 2011 18:11

Ci sia dato di entrare più profondamente nei pen­sieri di Dio riguardo all’«io» e tutto ciò che vi si rife­risce; cadremo così meno sovente nell’errore; il nostro cammino sarà fermo e moralmente elevato, il nostro spirito dolce, il servizio efficace.

«Or in quei giorni, quando Mosè era diventato gran­de, avvenne ch’egli uscì a trovare i suoi fratelli e notò i lavori di cui erano gravati; e vide un Egiziano che per­coteva uno degli Ebrei suoi fratelli. Egli volse lo sguar­do di qua e di là; e, visto che non c’era nessuno, uccise l’Egiziano e lo nascose nella sabbia (v. 11 e 12).

Il tempo stabilito da Dio per giudicare l’Egitto e liberare Israele non era ancora venuto; ma il servitore intelligente aspetta sempre il tempo di Dio. Mosè, dive­nuto grande, «fu educato in tutta la sapienza degli Egizi» e poi «egli pensava che i suoi fratelli intende­rebbero che Dio li voleva salvare per mezzo di lui» (Atti 7:22-25).

Tutto questo è vero. Tuttavia è evidente che Mosè anticipò i tempi e, quando così avviene, la caduta è im­minente (*); e non soltanto la caduta, alla fine, ma anche l’incertezza, la mancanza di calma e di santa dipendenza nello svolgimento di un’opera incominciata prima del tempo di Dio.

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(*) Nel discorso di Stefano al Sinedrio si trova un’allusione all’atto di Mosè, sul quale può essere utile dire qualcosa: «Ma quando fu pervenuto all’età di quarant’anni, gli venne in animo d’andare a visitare i suoi fratelli, i figliuoli d’Israele. E vedutone uno a cui era fatto torto, lo difese e vendicò l’oppresso, uccidendo l’Egizio. Or egli pensava che i suoi fratelli intenderebbero che Dio li voleva salvare per mano di lui; ma essi non l’intesero» (Atti 7:23-25). È evidente che in tutto questo discorso lo scopo di Stefano era quello di ricordare gli episodi della storia della nazione, adatti per agire sulla coscienza di chi gli stava dinanzi; sarebbe stato contrario a questo scopo e anche contrario alla regola dello Spirito nel Nuovo Testamento, il sollevare qui una questione per sapere se Mosè non avesse agito prima del tempo stabilito da Dio. Inoltre si limita a dire: «gli venne in animo d’andare a visitare i suoi frattelli». Non dice che Dio lo mandò, in quell’epoca. Ma questo non giustifica assolutamente lo stato morale di quelli che lo rigettarono. «Ma essi non l’intesero». Questo è ciò che li riguarda, indipendentemente dalle lezioni che Mosè abbia avuto da imparare su questo soggetto. Ogni credente spirituale comprenderà questo senza difficoltà. Considerando Mosè come «tipo», possiamo vedere, in questi aspetti della sua vita, la missione del Cristo in Israele, il suo rigettamento da parte dei Giudei che dicono: «Non vogliamo che costui regni su noi». D’altro canto, se consideriamo Mosè personalmente, vediamo che, come molti altri, ha commesso degli errori e ha manifestato delle debolezze. A volte voleva andare troppo veloce, altre volte troppo piano. Tutto questo è facilmente comprensibile e non fa che magnificare la grazia infinita e la inesauribile pazienza di Dio.

Gian-
00giovedì 21 aprile 2011 18:11
Mosè guardò «di qua e di là». Quando si agisce con Dio e per Dio, nella piena intelligenza dei suoi pen­sieri circa i particolari dell’opera da compiere, non c’è bisogno di guardarsi attorno. Se quello fosse stato real­mente il tempo di Dio, se Mosè avesse avuto la coscien­za, nel suo intimo, d’aver ricevuto da Dio la missione di eseguire il giudizio sull’Egiziano, se fosse stato certo che Dio era presente, non avrebbe volto «lo sguardo di qua e di là». L’atto di Mosè racchiude una lezione molto pratica per ogni servitore di Dio. Vi troviamo due circostanze: la paura della collera dell’uomo e la speranza di ottenere il favore dell’uomo. Il servitore di Dio non dovrebbe preoccuparsi né dell’una né dell’al­tra. Che valore hanno l’ira o il favore di un povero mor­tale per chi ha l’incarico di una missione divina e gode della presenza di Dio? Per un tale uomo esse hanno meno importanza di un granello di polvere attaccato al piatto di una bilancia.

«Non te l’ho io comandato? Sii forte e fatti animo; non ti spaventare e non ti sgomentare, perché l’Eterno, il tuo Dio, sarà teco ovunque andrai» (Giosuè 1:9). «Tu, dunque, cingiti i lombi, levati, e dì loro tutto quello che io ti comanderò. Non ti sgomentare per via di loro ond’io non ti renda sgomento in loro presenza. Ecco, oggi io ti stabilisco come una città fortificata, come una colonna di ferro e come un muro di rame contro tutto il paese, contro i re di Giuda, contro i suoi principi, contro i suoi sacerdoti e contro il popolo del paese. Essi ti faranno la guerra, ma non ti vinceranno, perché io sono teco per liberarti, dice l’Eterno» (Geremia 1:17-19).

Posto su un terreno così elevato, il servitore di Cristo non volge lo sguardo di qua e di là; egli agisce secondo questo consiglio della sapienza divina: «gli occhi tuoi guardino bene in faccia, e le tue palpebre si dirigano dritto davanti a te» (Proverbi 4:25). La sapienza divina ci porta sempre a guardare in alto e avanti. Possiamo essere certi che vi è del male in noi e che non ci troviamo sul vero terreno del servizio per Dio, quando ci guardiamo attorno sia per evitare lo sguardo sdegnato di un uomo sia per incontrare il sorriso della sua approvazione; e non abbiamo la certezza che la nostra missione rivesta l’autorità divina e che godiamo della presenza di Dio, cose ambedue assolutamente necessarie per ogni servitore di Dio. Un gran numero di persone, è vero, sia per profonda ignoranza, sia per eccessiva fiducia in se stesse, entrano in una sfera d’at­tività alla quale Dio non le destinava e per la quale, di conseguenza, non le aveva qualificate; e tali persone manifestano un sangue freddo e una padronanza di se stesse sorprendenti per quelli che hanno occasione di giudicare con imparzialità i loro doni e i loro meriti.
Gian-
00giovedì 21 aprile 2011 18:12
Ma tutta questa bella apparenza cede ben presto il posto alla realtà e non può minimamente intaccare il principio secondo il quale nulla può liberare l’uomo dalla tendenza di guardarsi attorno con circospezione se non la coscienza di una missione affidata da Dio e della pre­senza di Dio. Chi possiede queste due cose è completa­mente liberato dalle ingerenze umane; è indipendente dagli uomini; e nessuno è in grado di servire altri se non è assolutamente indipendente da essi; ma chi co­nosce il suo vero posto può abbassarsi per lavare i piedi ai propri fratelli.

Se distogliamo i nostri sguardi dall’uomo e li rivol­giamo sul solo perfetto Servitore, non lo vediamo guardare di qua e di là, per la semplice ragione che i suoi occhi non erano mai fissi sugli uomini ma sempre e sol­tanto su Dio. Gesù non temeva l’ira dell’uomo e neppure cercava il suo favore; non aperse mai la bocca per otte­nere gli applausi degli uomini; non tacque mai per evi­tare il loro disprezzo; per questo tutte le sue parole e i suoi atti erano contrassegnati da elevatezza e da santa fermezza. Egli è il solo di cui si è potuto dire con ve­rità: «La sua fronda non appassisce e tutto quello che fa prospererà» (Salmo 1:3).

Tutto quello ch’egli faceva tornava a suo vantaggio perché faceva tutto per Dio. I suoi atti, le sue parole, i suoi movimenti, i suoi sguardi, i suoi pensieri somi­gliavano a un bel mazzo di frutti fatto per rallegrare il cuore di Dio e il cui profumo saliva verso di Lui. Egli non aveva mai nessun timore quanto al risultato della sua opera, poiché agiva sempre con Dio e per Dio, in una piena intelligenza dei suoi pensieri. La sua propria volontà, per quanto perfetta fosse, non si mescolò mai a nessuna delle cose che fece come uomo sulla terra. Ha potuto dire: «Son disceso dal cielo per fare non la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato» (Giovanni 6:28); per questo egli dava il suo frutto «nella sua stagione». Faceva sempre le cose che piacevano al Padre (Giovanni 8:29), e, di conseguenza, non aveva mai nulla da temere, mai bisogno di pentirsi o di volgere lo sguardo di qua e di là.

Ora, sotto questo aspetto, come sotto ogni altro, il beato Maestro fa sorprendentemente contrasto con i più notevoli e i più eminenti dei suoi servitori. Mosè stesso «ebbe paura», e Paolo «provò del rincresci­mento» (2 Corinzi 7:8). Il Signore Gesù non provò mai né l’una né l’altro; non dovette mai tornare sui propri passi, né ritirare una parola o rettificare un pensiero. In Lui tutto era perfetto in modo assoluto; tutto era «il frutto nella sua stagione». Il corso della sua vita santa e celeste procedeva senza turbamento e senza deviazioni. La sua volontà era perfettamente sottomessa. Gli uomini migliori e più devoti commettono errori; ma è certo che più potremo, per grazia, mortificare la nostra volontà, meno ne commetteremo. È una gioia, insomma, quando il nostro sentiero è realmente un sentiero di fede e di sincera devozione a Cristo.
Gian-
00giovedì 21 aprile 2011 18:12
Mosè camminava così. Era un uomo di fede, un uomo che si lasciava riempire e penetrare dallo spirito del suo Maestro e camminava sulle sue orme con una fer­mezza e una costanza meravigliose. Egli anticipò, è vero, di quarant’anni, il tempo stabilito da Dio per giudicare l’Egitto e liberare Israele; tuttavia questo fatto non lo vediamo ricordato nel commento ispirato nel capitolo 11 dell’epistola agli Ebrei, dove troviamo soltanto il principio divino sul quale, in definitiva, il suo cammino era fon­dato. «Per fede Mosè, divenuto grande, rifiutò d’esser chiamato figliuolo della figliuola di Faraone, scegliendo piuttosto d’esser maltrattato col popolo di Dio che di godere per breve tempo i piaceri del peccato; stiman­do egli il vituperio di Cristo ricchezza maggiore dei te­sori d’Egitto, perché riguardava alla rimunerazione. Per fede abbandonò l’Egitto, non temendo l’ira del re, perché stette costante, come vedendo Colui che è invisibile» (Ebrei 11:24-27).

Questi passi ci descrivono la con­dotta di Mosè in un modo pieno di grazia. È sempre così che lo Spirito Santo presenta la sto­ria dei santi dell’Antico Testamento. Quando scrive la storia d’un uomo ce lo mostra tale qual’è con tutti i suoi peccati e le sue imperfezioni; ma quando, nel Nuo­vo Testamento, commenta questa stessa storia, si li­mita a far conoscere il vero principio informatore e il risultato generale della vita di quest’uomo. Così, benché nell’Esodo sia raccontato che Mosè «volse lo sguardo di qua e di là», che «ebbe paura, e disse: Certo, la cosa è nota», e infine che «fuggì dal cospetto di Fa­raone», nell’epistola agli Ebrei leggiamo che ciò che Mosè ha fatto, lo ha fatto «per fede», «non temendo l’ira del re» e che «stette costante come vedendo Colui che è invisibile».

Fra poco avverrà la stessa cosa, quando il Signore verrà, «il quale metterà in luce le cose occulte delle tenebre, e manifesterà i consigli dei cuori; e allora cia­scuno avrà la sua lode da Dio» (1 Corinzi 4:5). È questa una verità consolante e preziosa per ogni anima diritta e per ogni cuore fedele. Il cuore può formulare molti piani che, per varie ragioni, la mano è incapace di realizzare; tutti questi piani saranno «manifestati» quando «il Signore verrà». Sia benedetta la grazia che ne ha data la certezza!

I consigli d’amore di un cuore che gli è attaccato sono per Cristo molto più preziosi delle opere esteriori, anche le più perfette. Queste ultime potranno brillare agli occhi degli uomini e diventare il soggetto dei loro discorsi mentre i primi sono destinati soltanto per il cuore di Gesù e saranno manifestati davanti a Dio e ai santi angeli; possa il cuore di ogni servitore di Cri­sto essere esclusivamente occupato della sua persona; possano i loro occhi essere fermamente rivolti al suo ritorno!

Studiando la vita di Mosè vediamo che la fede gli fece seguire una via opposta al corso naturale che lo portò non soltanto a sprezzare tutti i piaceri, tutte le se­duzioni e gli onori della corte di Faraone ma, in più, ad abbandonare un campo d’azione utile e, in apparenza, molto esteso. I ragionamenti umani l’avrebbero con­dotto in una via del tutto opposta; l’avrebbero indotto a sfruttare la sua influenza in favore del popolo di Dio e ad agire in favore di quel popolo piuttosto che a sof­frire con lui. Secondo il giudizio umano la provvidenza sembrava aver aperto a Mosè un campo di lavoro este­so e molto importante: e, in effetti, se mai la mano di Dio aveva chiaramente posto qualcuno in una posizione del tutto speciale, questo era il caso di Mosè. È stato per un meraviglioso intervento e per una incomprensi­bile concatenazione di eventi, ciascuno dei quali rive­lava la mano dell’Onnipotente e che nessun uomo po­teva prevedere, che la figlia di Faraone divenne lo stru­mento per mezzo del quale Mosè fu tratto dall’acqua, nutrito e allevato fino a che «fu pervenuto all’età di qua­rant’anni» (Atti 7:23). In simili circostanze, l’abbando­no della sua alta posizione e delle influenze che questa gli permetteva di esercitare, non poteva essere inter­pretato che come il risultato di uno zelo fuori posto.

Così ragiona la nostra natura cieca; ma la fede pensava le cose diversamente, poiché la carne e la fede sono sempre in opposizione l’una con l’altra. Esse non pos­sono trovarsi d’accordo su un solo punto; e tanto meno su ciò che generalmente viene chiamata «guida della Provvidenza».
Gian-
00giovedì 21 aprile 2011 18:13
La carne intravedrà sempre queste direzioni come altrettante autorizzazioni ad abbandonarsi alle sue pro­prie inclinazioni; invece la fede le considera come oc­casioni per rinunciare all’io. Giona avrebbe potuto scor­gere, nell’incontro di una nave diretta a Tarsis, una evi­dente indicazione della provvidenza, mentre, in effetti, finì per essere un’occasione per lui di distogliersi dal cammino dell’obbedienza.

È, indubbiamente, privilegio del cristiano il discer­nere la mano e l’udire la voce del Padre in ogni circo­stanza. Il cristiano che non si lascia guidare da esse, assomiglia a un battello in mezzo al mare senza bus­sola e senza timone; è esposto alla mercé dei marosi e della bufera. La promessa che Dio fa al suo figliuolo è: «io ti consiglierò e avrò gli occhi su te» (Salmo 32:8); e la sua parola d’avvertimento è: «non siate come il cavallo e come il mulo che non hanno intelletto la cui bocca bisogna frenare con morso e con briglia altri­menti non ti s’accostano!» (Salmo 32:9).

Ora, è preferibile essere guidati dall’occhio del no­stro Padre piuttosto che dal morso e dalla briglia delle circostanze; e sappiamo che, nel significato corrente, l’espressione «provvidenza» non è che un termine per indicare l’azione delle circostanze.

La potenza della fede si manifesta sempre nel rifiu­to e nell’abbandono di tali pretese direzioni provviden­ziali. È stato il caso di Mosè che «per fede rifiutò d’esser chiamato figliuolo della figliuola di Faraone» e «per fede abbandonò l’Egitto». Se il suo giudizio si fosse basato su ciò che vedeva, avrebbe considerato la dignità che gli era offerta come un dono palese della Provvidenza divina e sarebbe ri­masto alla corte di Faraone dove, apparentemente, la mano di Dio gli aveva preparato un vasto campo di la­voro. Ma dal momento che camminava per fede e non per visione, egli lasciò tutto. Che nobile esempio da seguire!

E, notate, ciò che Mosè stimò «ricchezza mag­giore dei tesori d’Egitto» era non solo l’obbrobrio per Cristo, ma «il vituperio di Cristo». «I vituperi di quelli che ti vituperano son caduti su me» (Salmo 69:9). Il Signore Gesù si identificò, in perfetta grazia, col suo popolo. Lasciando il seno del Padre, deponendo tutta la gloria di cui era rivestito, discese dal cielo, si mise al posto del suo popolo, confessò i peccati dei suoi e portò il loro giudizio sul legno maledetto. Fu questa la sua dedizione volontaria; non si limitò ad agire per noi ma si fece uno con noi liberandoci così da tutto ciò che poteva essere contro a noi.


Gian-
00giovedì 21 aprile 2011 18:13

In questo modo vediamo in che grado Mosè, nelle sue simpatie, entrava nei pensieri e nei sentimenti di Cristo riguardo al popolo di Dio. Posto com’era in mezzo al benessere, allo sfarzo e alla gloria della corte di Fa­raone, là dove abbondavano i «piaceri del peccato» e «i tesori d’Egitto», avrebbe potuto, volendolo, godere di tutte queste cose; avrebbe potuto vivere e morire nell’opulenza e percorrere un cammino rischiarato, dal principio alla fine, dalla luce del favore reale; ma tutto ciò non sarebbe stato «la fede» e neppure l’essere «conforme a Cristo». Dalla posizione elevata in cui si trovava, Mosè vide i suoi fratelli curvi sotto il peso che era stato posto sulle loro spalle e, per fede, capì che il suo posto era con loro. Sì, con loro nel loro obbrobrio, nella loro schiavitù, nelle loro afflizioni, nel loro avvilimento. Se fosse stato mosso soltanto da un sentimento di benevolenza, di filantropia o di patriotti­smo, avrebbe potuto far valere la propria influenza in favore dei suoi fratelli. Sarebbe forse arrivato a con­vincere Faraone ad alleggerire il peso che li opprime­va, a rendere la loro esistenza più dolce con delle con­cessioni reali; ma una tale via non è mai quella di un cuore in comunione col cuore di Cristo e non lo soddisferà mai. Questo era, per grazia, il cuore di Mosè; perciò con tutta l’energia e gli affetti di questo cuore, egli si slanciò, corpo, anima e spirito, in mezzo ai suoi fratelli oppressi «scegliendo piuttosto d’esser maltrat­tato col popolo di Dio». Oltre a ciò è «per fede» che ha agito così.

Valutiamo bene questo, caro lettore: non dobbiamo accontentarci di desiderare il bene del popolo di Dio, di adoperarci per esso o di parlare con benevolenza in suo favore; dobbiamo pienamente identificarci con lui per quanto sprezzato e perseguitato esso sia. Uno spirito generoso può provare un certo piacere ad ap­poggiare il Cristianesimo; ma è tutt’altra cosa l’iden­tificarsi col cristiano e il soffrire con lui. Una cosa è essere protettore, altra cosa è essere martire: la di­stinzione fra l’una e l’altra la troviamo da un capo al­l’altro della Scrittura. Abdia si era curato dei testimoni di Dio (1 Re 18:3-4), ma Elia fu un testimone per Dio. Il re Dario era così affezionato a Daniele che, per causa sua, passò una notte insonne; ma, quella stessa notte, Daniele la passò nella fossa dei leoni, quale testimone della verità (Daniele 6:18). Nicodemo az­zardò una parola per Cristo, ma una più matura cono­scenza del Maestro l’avrebbe spinto a identificarsi con Lui.

Queste considerazioni sono puramente pratiche. Il Signore Gesù non ha bisogno di protettori; egli vuole dei compagni. La verità che lo concerne ci è rivelata non perché ci assumiamo la difesa della sua causa sulla terra, ma perché abbiamo comunione con la sua persona nei cieli. Egli si è identificato con noi al prezzo immenso di tutto ciò che l’amore poteva offrire. Non ne era obbligato; avrebbe potuto conservare il suo posto eterno «nel seno del Padre»; ma allora come avrebbe potuto scendere fino a noi, peccatori colpevoli e degni dell’inferno, il potente fiume del­l’amore che era trattenuto nel suo cuore? Tra Lui e noi non poteva esserci unione se non alle condizioni che esigevano dalla sua parte l’abbandono di ogni cosa. Ma, benedetto sia in eterno il suo Nome adorabile, egli si è volontariamente sottomesso: «Il quale ha dato se stesso per noi affin di riscattarci da ogni ini­quità e di purificarsi un popolo suo proprio, zelante nelle opere buone» (Tito 2:14). Egli non ha voluto go­dere da solo, della propria gloria ma ha voluto soddi­sfare il suo cuore amando e associandosi «molti fi­gliuoli» in quella gloria. Egli dice: «Padre, io voglio che dove son io siano meco anche quelli che tu m’hai dato affinché veggano la mia gloria che tu m’hai dato; poiché tu m’hai amato avanti la fondazione del mondo» (Giovanni 17:24).

Quelli erano i pensieri di Cristo per il suo popolo e possiamo considerare come il cuore di Mosè simpa­tizzasse con questi pensieri benedetti. Senza contraddi­zione egli aveva parte, in sommo grado, allo spirito del suo Maestro e lo mostrò sacrificando volontariamente ogni considerazione personale e associandosi senza ri­serve al popolo di Dio.

Gian-
00giovedì 21 aprile 2011 18:14

Nel capitolo successivo avremo da considerare il nuovo carattere personale e gli atti di questo grande servitore di Dio; ci limitiamo a considerarlo qui come figura del Signore Gesù. Da ciò che leggiamo, in Deute­ronomio 18:5: «l’Eterno il tuo Dio ti susciterà un pro­feta come me, in mezzo a te, d’infra i tuoi fratelli; a quello darete ascolto!» (confr. Atti 7:37), è evidente che Mosè era una figura di Cristo. Non ci­abbandoniamo dunque a pensieri umani se consideriamo Mosè come un «tipo», ma seguiamo l’insegnamento chiaro ed esplicito della Scrittura che, negli ultimi versetti del cap. 2 dell’Esodo, ce lo presenta sotto due aspetti: dap­prima (v. 14 e Atti 7:27-28) come rigettato da Israele; poi nella sua unione con una straniera nel paese di Madian (v. 21-22).

Abbiamo già sviluppato questi due punti studiando la storia di Giuseppe che, respinto dai suoi fratelli se­condo la carne, si unisce a una donna egiziana. Il riget­tamento di Cristo da parte di Israele e la sua unione con la Chiesa, sono rappresentati in figura nelle storie di Giuseppe e di Mosè; ma gli aspetti sono diversi. Nella storia di Giuseppe si vede la manifestazione del­l’inimicizia aperta contro la sua persona; in quella di Mosè, invece, il rigettamento riguarda la sua missione. Di Giuseppe è scritto: «I suoi fratelli... l’odiavano e non gli potevan parlare amichevolmente». A Mosè dissero: «Chi t’ha costituito principe e giudice sopra di noi?». In altri termini il primo fu odiato personalmente; l’ul­timo pubblicamente respinto.

Nello stesso modo il gran­de mistero della Chiesa è presentato nella storia di questi due santi dell’antico Testamento. Asenath rap­presenta una fase della Chiesa diversa da quella rap­presentata da Sefora. Asenath si unì a Giuseppe nel­l’epoca della sua esaltazione: Sefora fu la compagna di Mosè durante il tempo di oscura vita nel deserto (confr. Genesi 41:41-45; Esodo 2:15 - 3:1). Giuseppe e Mosè, nell’epoca della loro unione con una straniera, erano tutti e due rigettati dai loro fratelli, ma mentre il primo era governatore su tutto il paese d’Egitto, il secondo «guidava il gregge dietro al deserto».

Sia dunque che contempliamo Cristo manifestato in gloria o sia nascosto alla vista del mondo, la Chiesa gli è intimamente associata. E come il mondo ora non vede Lui, così non può conoscere questo corpo che è uno con Lui. «Per questo non ci conosce il mondo, perché non ha conosciuto Lui» (1 Giovanni 3:1). Ben presto Cri­sto apparirà nella sua gloria e la Chiesa con Lui. «Quando Cristo, la vita nostra, sarà manifestato, allora anche voi sarete con Lui manifestati in gloria» (Colossesi 3:4) e ancora: «E io ho dato loro la gloria che tu hai dato a me, affinché siano uno come noi siamo uno; io in loro e tu in me; acciocché siano perfetti nell’unità, affinché il mondo conosca che tu m’hai mandato e che li ami come hai amato me» (Giovanni 17:22-23) (*).

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(*) In Giovanni 17:21-23 si tratta di due unità distinte e differenti. Le prima era quell’unità il cui mantenimento ere affidato alla responsabilità della Chiesa e che ha completamente fallito; la seconda è quell’unità che Dio formerà immancabilmente e che manifesterà nella sua gloria. Se il lettore rilegge con cura questo passo si convincerà di questa differenza sia quanto al carattere che quanto al risultato di queste unità.
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Gian-
00giovedì 21 aprile 2011 18:14
Questa è la posizione santa ed elevata della Chiesa. Essa è una con Colui che è rigettato dal mondo ma che siede sul trono della Maestà nei cieli. Il Signore Gesù si è reso responsabile per lei sulla croce, per farla par­tecipare al suo attuale rigettamento e alla sua gloria futura.

Volesse Dio che tutti coloro che fanno parte di un corpo così gloriosamente privilegiato fossero più pro­fondamente penetrati dal sentimento intelligente del cammino che ad essi si addice e del carattere che de­vono rivestire quaggiù. I figli di Dio dovrebbero rispon­dere tutti più pienamente e più chiaramente a quel­l’amore che li ha amati, a quella grazia ch’Egli ha dato loro e alla dignità di cui li ha rivestiti. Il camminò del cristiano dovrebbe essere sempre il risultato spontaneo di un privilegio compreso e realizzato e non il risultato costretto di promesse e di risoluzioni legali; il frutto naturale di una posizione conosciuta e di cui si gioisce per la fede e non il frutto degli sforzi dell’uomo per giungere a una posizione «per mezzo delle opere della legge». Ogni vero credente è una parte del corpo di Cristo, della Sposa di Cristo; egli deve dunque a Cristo l’affetto che si addice a una tale relazione. Non si entra nelle relazioni in base all’affetto ma l’affetto deriva dalla relazione.

Così ne sia, Signore, di tutto il tuo popolo diletto che tu hai riscattato a prezzo del tuo sangue!
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