Leibniz

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BRESCIAGGHER
00domenica 19 giugno 2005 14:40
Liebniz ha mille volte ragione nei confronti di Cartesio, allorché afferma che l'essenza dei corpi non è l'estensione ma il movimento, in quanto l'estensione è passiva, mentre il movimento è attivo e perenne. Cartesio, in fondo, guardava le cose con l'occhio del matematico (non del fisico); inoltre aveva un legame ancora troppo stretto con la religione perché arrivasse a sostenere che la materia è viva come lo spirito. (Da notare però che neppure Leibniz s'è mai interessato di fisica. Probabilmente con lui è successo quel che spesso succede quando il lato dialettico del materialismo -in questo caso del Cartesio matematico- viene sviluppato non dallo stesso materialismo bensì dall'idealismo).

Cartesio non avrebbe mai ammesso che si possono avere rappresentazioni senza la coscienza di averle, cioè in maniera inconscia, in quanto l'attività della materia è incessante e pervasiva. Cartesio vedeva la materia come un elemento da controllare con la matematica e la geometria (che sono scienze astratte).

Tuttavia, Leibniz non ha saputo cogliere l'importanza del concetto spinoziano di sostanza (unica). Per lui, infatti, le sostanze sono infinite, ognuna delle quali dotata di propria individualità (monadi). Ciò che manca alla metafisica di Leibniz è il coordinamento delle parti nel tutto. Spinoza avrebbe detto che tale coordinamento va ricercato nella natura. Il marxismo invece afferma ch'esso va ricercato nella massima realizzazione della natura, e cioè nell'uomo (che è il fine dell'universo).

Leibniz ha sbagliato soprattutto là dove esclude l'azione reciproca tra le monadi, ovvero dove afferma l'impenetrabilità delle sostanze. A suo giudizio, le relazioni tra le monadi sono solo metafisiche, idealistiche, interiorizzate.

La monade è sì dotata di automovimento, ma Leibniz non sa scorgere la sostanza unica e universale in cui ogni monade si rispecchia. Pertanto anche la sua filosofia è individualistica.

Nel migliore dei casi (ma sarebbe meglio dire: nel peggiore dei casi) egli attribuisce a dio l'armonia prestabilita tra le monadi. Dio cioè avrebbe creato un'infinità di monadi che, pur essendo sostanzialmente simili, in quanto provenienti da un'unica fonte, sono inspiegabilmente "senza finestra". Inutile dire che, avendo posto il problema in termini così mistici, Leibniz si è contraddetto alla radice.

Singolare però il fatto ch'egli, in un certo senso, anticipa Freud, poiché col suo discorso delle percezioni inconsce, arriva ad attribuire all'uomo dei poteri che sfuggono ad un controllo razionale. Siamo a un passo dalla definizione freudiana di "inconscio".

Freud arriverà addirittura ad affermare che l'inconscio domina per gran parte la coscienza: ciò che Leibniz, invece, non avrebbe (giustamente) mai ammesso. Tuttavia, Leibniz si è servito dell'inconscio nella stessa maniera freudiana, al fine di giustificare l'imperfezione della monade e quindi l'idea borghese dell'autoconservazione della realtà (così com'essa è). [Come noto Freud si spingerà ancora più in là, arrivando a legittimare l'inconscio ai fini della distruzione irrazionale della realtà].

La monade -dice Leibniz- è uno "sforzo" perenne di perfezione, mai un atto compiuto (in questo senso Leibniz è molto più ottimista di Freud, per il quale ogni "sforzo" etico contro gli impulsi dell'inconscio, era una battaglia destinata ad essere persa). Solo lo "spirito puro", per Leibniz, è "atto" - qui si anticipa addirittura Gentile.

Ora, il problema non sta tanto nel concetto (mistico) di "spirito puro", e neppure nell'idea di progressiva perfezione, quanto piuttosto nella convinzione che -siccome la perfezione è irraggiungibile- è fatica sprecata impegnarsi per ottenerla (anche perché, secondo Leibniz, essendo ogni monade diversa, diversa è la percezione della felicità).

Anche Leibniz è dunque un filosofo borghese (pre-industriale), individualista e metafisico, incapace di emanciparsi radicalmente dalla religione. Per lui, l'unica relazione possibile, sul piano socio-politico, tra le monadi, è quella della subordinazione gerarchica (dalla più imperfetta a quella più perfetta).

Da notare, inoltre, che anche in Leibniz -come in Cartesio- il rapporto con la religione ha mortificato il discorso scientifico vero e proprio, cioè in sostanza i ragionamenti logico-matematici.

BRESCIAGGHER
00domenica 19 giugno 2005 14:41
IL PRINCIPIO DI RAGION SUFFICIENTE
Il principio di ragion sufficiente non è che una riformulazione filosofica del principio cristiano della provvidenza divina. E' un ottimismo à tout prix.

Con questo principio si può arrivare a giustificare (volendo) ogni cosa. La riuscita della giustificazione -secondo i filosofi idealisti- dipende solo dalla elaborazione (o coerenza) sufficientemente grande della spiegazione. La verità, per l'idealismo, non sta nei fatti, ma nella logica formale.

Leibniz arrivò persino a negare la grande importanza dialettica della contraddizione, e a considerare l'esperienza meno importante della logica formale, appunto perché contraddittoria (Leibniz qui anticipò il Kant della Ragion pura).

Il torto di Leibniz non sta tanto nell'aver categoricamente escluso la casualità, quanto nell'aver ridotto l'esperienza a una formula matematica.

Il principio di contraddizione non viene usato in positivo ma in negativo: "è falso ciò che implica contraddizione". Col che Leibniz trasforma l'esperienza in un'operazione di calcolo, come 2+2=4, e si riserva, in ultima istanza, di decidere ciò che è vero e ciò che è falso sulla base di congetture logico-formali (anticipando in questo il neo-positivismo). Come se i valori della vita potessero essere desunti dalla matematica! (In questo i neopositivisti sono più realisti, anche se il loro disincanto è più che altro frutto di una negazione dell'ontologia).

Lo stesso uso al negativo della contraddizione caratterizza il principio di ragion sufficiente, il quale appunto serve a giustificare ciò che, in apparenza (di primo acchito), non può essere giustificato altrimenti. Leibniz ha ribadito, in questo modo, il ruolo di giudice del filosofo.

Egli in realtà non si preoccupava di conoscere la verità dei fatti, ma solo di determinare una coerenza logica dei concetti. Leibniz è un filosofo da laboratorio. Questo suo modo di procedere purtroppo porta diritti al conformismo sociale.

Ogni cosa -dice Leibniz- merita di esistere, se ne ha una ragione sufficiente (valida). Egli, per fortuna, non arriva a sostenere anche il contrario, e cioè che le cose senza una plausibile ragione non meritano di esistere. Leibniz non è un filosofo totalitario (come ad es. Hegel, che considerava "reale" solo il "razionale", che poi era il proprio modo di considerare la "razionalità").

Leibniz infatti afferma che le cose devono avere una ragione per il semplice fatto ch'esistono. Anche Hegel, in verità, sosteneva che il "reale" è "razionale", ma il suo concetto di "realtà" dipendeva strettamente da quello di "razionalità".

Per Leibniz invece ciò che esiste è il meglio possibile: e tale garanzia è data direttamente da dio! Non che con questo, ovviamente, Leibniz sia superiore a Hegel: qui si può soltanto evidenziare che la superiorità di Hegel (il quale dà maggior peso all'autonomia del pensiero umano) viene pagata, dalla libertà, con un prezzo molto alto. L'uomo hegeliano deve rientrare in un sistema preordinato per sentirsi qualcuno; l'uomo di Leibniz ha bisogno soltanto di sentirsi qualcuno.

Più che un ottimista, Leibniz andrebbe considerato un terribile ingenuo, poiché solo un ingenuo può pensare che la ragione abbia in sé ogni ragione per giustificare l'esistenza di ogni cosa. Hegel non aveva tutti i torti nel considerare meritevole d'esistenza solo ciò che è razionale, poiché in tal modo faceva comprendere che molte cose esistenti erano "irrazionali" (e qui sta la sua superiorità su Leibniz). Tuttavia, la razionalità hegeliana era terribilmente conservatrice, al servizio -e questo è veramente paradossale- di quel sistema irrazionale (perché superato dai tempi) che era il governo feudale-prussiano.

L'ingenuità di Leibniz la si nota anche nella differenza ch'egli pone tra verità di fatto e verità di ragione. Le prime sono quelle dell'esperienza, contingenti, e non sono autentiche verità, perché l'esperienza è troppo contraddittoria per essere vera al 100%, sono insomma verità inautentiche finché non vengono smentite da argomentazioni più coerenti (le verità di ragione). Leibniz arrivò addirittura a sostenere che la relatività delle verità di fatto è tale per cui il loro contrario non implica contraddizione. Cioè è una relatività così assoluta che ai fini della conoscenza non serve a niente.

Le verità più autentiche, assolute, sono dunque quelle di ragione, cioè quelle extra-esperienziali, quelle logiche, astratte, simboliche, formali, matematiche, il cui contrario implica contraddizione. Solo queste verità sono anche necessarie, le altre sono meramente possibili. Questa la "logica della vita" di Leibniz.

BRESCIAGGHER
00domenica 19 giugno 2005 14:41
Dimenticavo

entrambi i pezzi sono tratti da Homolaicus [SM=x278663]
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