Nel regno delle tribu' Karamoja
Siamo nella terra delle tribù Karamoja, nell’estremo nord-est ugandese, una regione segnata da povertà, siccità costante, scarse infrastrutture e servizi sociali ridotti al minimo, opportunità di mercato inesistenti, degrado delle risorse ambientali, emarginazione sociale e culturale, dipendenza perenne da aiuti esterni e conseguente radicato senso di insicurezza. La principale fonte di sostentamento è qui costituita dall’allevamento e dall’agricoltura, ma i governi avvicendatisi hanno tutti considerato superato l’ancestrale stile di vita pastorale dei Karamoja.
Per stabilizzare la situazione si sforzarono di istituire confini per le riserve forestali e di caccia, restrizioni di movimento sulle aree di pascolo nella stagione secca, intensificazione dei raccolti. Il risultato è un aumento della concorrenza nello sfruttamento delle risorse già limitate con il conseguente declino del numero medio di mandrie e la disintegrazione del tessuto familiare. I conflitti interni hanno fatto il resto creando sacche di sfollati e rifugiati che vagano per il Paese.
«L’Uganda oggi - raccontano Mauro Modena e Adama Sanné del Cesvi - ha notevoli differenze al suo interno. In pratica si tratta di 2 Paesi molto diversi: il Nord e il Sud Uganda».
Nel Nord, dove Cesvi è presente con diversi progetti, i conflitti degli anni passati hanno portato circa 1 milione e mezzo di persone ad abbandonare le proprie case e le proprie terre, cercando rifugio negli campi rifugiati; parte di queste persone riusciva, durante il giorno, a raggiungere le proprie terre per continuare a coltivarle. Ma la maggior parte sopravviveva grazie agli aiuti del World Food Program oppure cercava di coltivare piccoli terreni intorno ai campi profughi.
«Gli scontri tra esercito e LRA sono cessati da un anno, la situazione sta tornando alla normalità ed ora si tratta di sostenere gli sfollati nel loro ritorno a casa, sulle terre che prima abitavano».
Ecco perché dal 2001 Cesvi interviene a sostegno delle comunità locali, assistendo la popolazione nella fase del rientro a casa, sostenendo il rilancio delle attività produttive, in particolare dell’agricoltura, la riabilitazione di strutture sanitarie periferiche e l’accesso all’acqua e all’igiene per le popolazioni nelle aree di ritorno. Nel Sud-Est del Paese, il sostegno socio-sanitario alle categorie più vulnerabili si unisce all’aiuto umanitario a favore delle vittime dell’alluvione dell’autunno 2007. L’organizzazione ha recentemente portato a termine nell’area del Karamoja il progetto “Sicurezza Alimentare” che ha fornito alla popolazione rurale il materiale necessario alla coltivazione della cassava (manioca), le sementi agroforestali e le strutture per lo stoccaggio del raccolto, oltre alla formazione sulle tecniche base di coltivazione.
In questo contesto, spiegano ancora i responsabili, «il Karamoja è ancora un altro caso, un Paese nel Paese. La composizione di questa regione è etnicamente molto varia: vi si contano, infatti, 8 etnie diverse. La situazione di insicurezza, in questa parte, era indipendente dal conflitto tra esercito ed LRA, e dovuta ai conflitti tra le diverse etnie, legati soprattutto al furto di bestiame. Questo portava la popolazione ad abbandonare i campi e i pascoli più lontani dai centri abitati, per timore di attacchi». L’intervento è stato rivolto in particolare a 60 gruppi di agricoltori delle zone rurali formati sulle tecniche di stoccaggio e conservazione dei prodotti agricoli. È stata inoltre eseguita la ristrutturazione dei granai già esistenti all’interno delle comunità locali e la distribuzione di talee di cassava, all’inizio di ogni stagione delle piogge. Seguendo poi le direttive dell’iniziativa “Food for Work” del WFP, sono state poi distribuiti gli attrezzi per la produzione agricola Secondo Modena e Sanné «è fondamentale intervenire con progetti di sicurezza alimentare perché il tasso di denutrizione nella regione è altissimo. Negli scorsi mesi, in un momento di carestia particolarmente acuto, alcuni bambini sono morti dopo aver mangiato della spazzatura, in mancanza di altro cibo. Vi sono stati molti altri casi di morte per inserimento di erbe velenose e della corteccia velenosa di una varietà di cassava».
Il progetto, pensato per avere una sorta di effetto a cascata, è stato organizzato di modo che, oltre al rilancio della coltura di manioca, attraverso la fornitura di talee durante il primo anno, venga avviata nel secondo anno una sorta di economia di scala: i contadini che hanno ricevuto una talea, ormai diventata una pianta, ne restituiscono un ramo, che diventa una nuova talea e va a ricostituire la fornitura da distribuire ad altri contadini. «L’obiettivo per il terzo anno di attività è arrivare ad un numero di talee tale da poterle distribuire ai contadini e riuscire a vendere le eccedenze sul mercato, in modo da generare un piccolo reddito per questi gruppi di contadini e nel contempo diffondere la coltivazione della cassava» concludono i due operatori di Cesvi.
La manioca è una pianta autoctona, che la popolazione conosce da sempre e che è presente nella dieta quotidiana di tutte le famiglie: la sua coltivazione era diminuita proprio a causa delle condizioni di insicurezza che portavano la popolazione ad avere paura di coltivare le terre lontane dai centri abitati.
Una delle sue caratteristiche più apprezzate è, al contrario di quanto potrebbe esserlo per un occidentale, la sua lenta digestione, che rende la cassava un alimento utilissimo a combattere la sensazione di fame. Si tratta di una pianta molto resistente che, una volta piantata, sopravvive per anni, anche nelle imprevedibili condizioni climatiche di questa regione.
Questo è uno dei primi tentativi per rimettere in moto il circuito commerciale locale: fondamentali sono la creazione di un’industria di conservazione degli alimenti (per favorirne la commercializzazione anche su ampia scala e fuori stagione) e l’appoggio alla creazione di “cooperative” di agricoltori. Se cosi fosse l’Uganda potrebbe diventare il nuovo Paese africano emergente, ma resta necessario un massiccio investimento in progetti di sviluppo che consentano un effettivo superamento delle condizioni di insicurezza, sia in termini alimentari sia in termini di mancanza di conflittualità.
* Tratto da L’Espresso online, 10/11/08